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Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme
LUOGOTENENZA PER L'ITALIA MERIDIONALE TIRRENICA |
CULTURA E SPIRITUALITA' : L'avvento del Regno: Meditazione sul terzo Mistero della Luce, di don Cesare Mariano. |
L'AVVENTO DEL REGNO
Meditazione sul terzo Mistero della Luce
di don Cesare Mariano
“Si autem non
perturbas aquam cordis tui,
et hic agnosces
pacem Scripturarum,
et habebis cum
eis et tu pacem”
(Aug.,
Serm. 47)
§ x. Introduzione
Lettera ap. Rosarium Virginis Mariae di San Giovanni Paolo II, n. 21:
“Mistero di luce è la predicazione con la quale Gesù annuncia l'avvento
del Regno di Dio e invita alla conversione (cfr Mc 1, 15),
rimettendo i peccati di chi si accosta a Lui con umile fiducia (cfr Mc 2, 3-13;
Lc 7, 47-48), inizio del ministero di misericordia che Egli continuerà
ad esercitare fino alla fine del mondo, specie attraverso il sacramento
della Riconciliazione affidato alla sua Chiesa (cfr Gv 20, 22-23)”.
Da questo numero della RVM traggo le linee portanti di questa lectio.
§ 1. L’avvento del Regno
§ 2. Il Regno e la metánoia
§ 3. Il Regno mistero di misericordia, mistero di umiltà e grandezza, di
piccolezza e gloria. Altre caratteristiche del Regno (alla luce soprattutto di Mt
13 e anche alla seconda domanda del “Pater”)
§ 4. il Regno e la Chiesa (prospettive spirituali e pastorali)
§ 5. Maria e il Regno
Estratto:
Nell’Antico Testamento le frasi
“regno di Dio/regno dei cieli” indicano la regalità di Dio in atto nella
Creazione e nella storia, regalità che implica la risposta ed il coinvolgimento
attivo da parte dell’uomo. Nel Regno di Dio si realizza così una sinergia tra
l’azione di Dio e l’azione dell’uomo. Difatti, alla categoria di Regno di Dio è
collegata quella di alleanza.
Nel Nuovo Testamento queste accezioni
trovano la loro puntualizzazione e la suprema e definitiva realizzazione nella
persona di Gesù Cristo, che è l’autobasileía toû theoû, Ipsum Regnum Dei cioè il «Regno di Dio
in persona». Gesù è venuto nella carne, nella sua Pasqua di morte e
risurrezione ha instaurato il Regno di Dio, del quale la Chiesa costituisce
sulla terra “germen et initium” (Lumen gentium 5), verrà alla fine della
storia, viene nella vita dei cristiani, per estendere la sua signoria d’amore e
di pace su tutte le creature. L’attuatore della regalità del Padre in Cristo
Gesù è lo Spirito Santo: «Il regno di Dio (...) è giustizia, pace e gioia nello
Spirito Santo» (Rm 14,17). Egli opera, in sinergia con i credenti, perché
Cristo sia conosciuto ed amato da tutti e perché tutti trovino in lui la vita e
la pace.
§ 1. L’avvento del Regno
Et vidimus gloriam ejus (Gv 1,14).
In questi termini la comunità
giovannea coralmente proclama l’avvenimento del Regno di verità e e di grazia
nell’incarnazione del Verbo. La Parola creatrice che è all’origine di tutto ed
in cui tutto consiste si rende visibile in un volto, tangibile in un corpo, in
una carne: «e il Verbo si fece carne e
venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria,
gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di
verità (…). Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è
nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,1-18, spec. 14.18).
L’annunzio del Regno, la sua
attuazione attraverso i gesti compiuti da Gesù e, dietro suo mandato, dai suoi
Apostoli sono le vie attraverso cui Dio si comunica all’uomo.
La rivelazione di Dio, la sua
attestazione nella storia avviene, come ci insegna la Dei Verbum (la costituzione del Concilio Vaticano II sulla divina
rivelazione)– «con eventi e parole
intimamente connessi tra loro (= gestis verbisque intrinsece inter se
connexis), in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della
salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle
parole, e le parole proclamano le opere e illuminano il mistero in esse
contenuto». Cf. Dei Verbum, n.
2).
Già
nell’Antico Testamento e nelle fonti giudaiche antiche “Regno di Dio” o “Regno
dei cieli” indicano non appena una realtà politica o geografica ma la regalità di Dio in atto
nella creazione e nella storia, regalità che implica la risposta ed il
coinvolgimento attivo (una sinergia) da parte dell’uomo.
Difatti,
alla categoria di Regno di Dio è collegata quella di alleanza.
Va detto,
tuttavia, che la dimensione spaziale non è esclusa: sia nell’ebraico malkût (da
mélek, re, presente in varie forme - Malik , Melik , Malka , Malek , Malick , o Melekh – in tutte le lingue semitiche e anche in Mesopotamia: la forma più
arcaica Maloka indicava un principe o capo nell’accadico parlato in
Assiria/Babilonia/Caldea)
sia nel greco basileia (da basileus, re, di etimologia discussa:
forse identificabile con la forma micenea pasireu che nel 13° sec. a.C.
indicava, tuttavia, un signore sottoposto al vero e proprio re, wanakasi;
comunque, già nei poemi omerici indica il monarca) si esprime tanto il poter
regale quanto il reame (regnum in latino indica entrambe le cose).
Tuttavia,
come appare nei Sinottici e in modo ancora più evidente nel quarto Vangelo nel
contesto del drammatico dialogo tra Gesù e Pilato, il Regno di Gesù è Regno
di verità, ossia una regalità, un potere non astratto, non disincarnato ma
di origine trascendente: è immanente sì, ma perché è trascendente, perché
proviene dalla Verità di Dio.
Gv
18,33-38:
33Pilato allora rientrò nel pretorio,
fece chiamare Gesù e gli disse: «Sei tu il re dei Giudei?». 34Gesù rispose:
«Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». 35Pilato disse: «Sono
forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me.
Che cosa hai fatto?». 36Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo;
se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto
perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù».
37Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici:
io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per
dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».
38Gli dice Pilato: «Che cos’è la verità?».
Poiché, è
Gesù la via, la verità e la vita (Gv 14,6), il Regno di Dio consiste nella sua
stessa persona. In lui, nella sua vera umanità assunta dal Verbo Dio sta
regnando, sta cioè esercitando il suo potere per la salvezza dell’uomo.
Questo
regno è già quello escatologico.
Non deve
essere superato perché non può essere superato.
In Cristo
l’autocomunicazione di Dio agli uomini è perfetta e definitiva.
Il tempo
dello Spirito Santo che è quello della Chiesa non è affatto superamento del
regno di Cristo, della regalità salvifica di Gesù ma il suo annuncio, la sua
dilatazione fino agli estremi confini della terra.
Il Regno
di Cristo non può essere superato ma deve essere annunciato, comunicato,
diffuso tra gli uomini, dando forma alle anime, alle società, ai rapporti tra
gli uomni e gli stati:
«Nel
confronto con testi giudaici si nota con sorpresa che Gesù in molti casi parla
del regno di Dio come i rabbi parlano dell’eone futuro (banchetto escatologico,
essere grandi nel regno, entrare nel regno di Dio, ereditare, essere preparato);
anche questo è un indizio del carattere cosmico, universale, escatologico che
il regno ha per Gesù» (U. Luz, “basileia”, DENT 535; cf. Dalman, Worte
75-119).
Gesù
Cristo, che è l’autobasileía toû theoû, cioè il «Regno di Dio in
persona».
Il ministero messianico di Gesù sia
inteso come un ministero evangelico,
un ministero che intende portare agli uomini il vangelo, cioè il lieto
annunzio dell’amore misericordioso di Dio per Israele e per tutte le
nazioni.
La gioia piena legata alla venuta del
Messia è dovuta al fatto che egli, l’Unto del Signore rinnoverà, portandola a
compimento, la gioia dell’Esodo, attirando a sé in quest’esplosione di gioia
tutte le creature: non solo tutti i popoli della terra (cf. Is 2,2-5; Zc
8,20-23; 9,9-10) ma anche i cieli, le montagne, il deserto, le profondità della
terra, le foreste (cf. Is 35,1-10).
Ciò si evidenzia nell’annunzio
programmatico fatto da Gesù nella sinagoga di Nazareth proprio all’inizio del
suo ministero:
«Venne a Nàzaret, dove era cresciuto,
e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere.
Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove
era scritto: Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha
consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai
prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli
oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore. Riavvolse il rotolo,
lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti
erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: “Oggi si è compiuta questa
Scrittura che voi avete ascoltato”» (cf. Lc 4,16-21).
L’annunzio di Nazareth costituisce
come il frontespizio di tutta la missione di Gesù. Nella sua predicazione, Gesù
annunzia in tutti i modi e da tutti i versanti che il Regno di Dio è presente
nella sua persona e che esso è fonte di gioia sempre, anche nelle situazioni
apparentemente più svantaggiose e travagliate (come si vede nel testo delle
Beatitudini: cf. Mt 5,1-12; Lc 6,20-23). Questo paradosso (la gioia nella
sofferenza) si acuirà fino all’estremo nel Mistero della passione e della croce
di Gesù, Mistero che costituisce un tutt’uno
con il trionfo della Risurrezione:
Il Regno di Dio venuto, presente,
annunciato, comunicato nella persona di Gesù è mistero di luce proclamato e
realizzato da Gesù nel suo ministero messianico e, in forma definitiva, nella
sua Pasqua di passione, morte e risurrezione.
Messale Romano, Prefazio delle Dom. del T.O. IV:
“Egli, nascendo da Maria Vergine, ha
inaugurato i tempi nuovi; soffrendo la passione ha distrutto i nostri peccati;
risorgendo dai morti, ci ha aperto il passaggio alla vita eterna; salendo a te,
o Padre, ci ha preparato un posto nel tuo Regno”.
La rivelazione / instaturazione del
Regno è Mistero di luce.
Nei libri profetici, la simbologia
della luce è collegata soprattutto alla manifestazione del Messia. Molto
significativo in proposito l’oracolo di Is 8,23 – 9,6, soprattutto nel suo incipit: «1Il popolo che
camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in
terra tenebrosa una luce rifulse» (cf. Is 9,1). Nei versetti successivi,
l’irruzione della luce, apportatrice di gioia e di pace (cf. Is 9,2-4), viene
direttamente collegata alla nascita del Re – Messia.
Quanto agli autori del Nuovo
Testamento, essi hanno attinto a piene mani alla ricchezza simbolica del tema
della luce negli scritti dell’Antico Testamento, muovendosi lungo tre assi
tematici:
a) Gesù è identificato
con la luce;
b) è luce il mistero
salvifico di Gesù, sia per quanto riguarda le sue parole che le sue azioni;
c) è luce la nuova
condizione di cui Gesù rende partecipi i suoi discepoli.
In Gv 1,4-9 ricorre per ben sei volte
la parola fos, cioè luce:
«4In lui (cioè nel Logos) era la vita e la vita
era la luce degli uomini; 5la luce splende nelle tenebre e le
tenebre non l’hanno vinta. 6Venne un uomo mandato da Dio: il suo
nome era Giovanni. 7Egli venne come testimone per dare testimonianza
alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. 8Non era lui la
luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. 9Veniva nel mondo la
luce vera, quella che illumina ogni uomo».
Rimanendo ancora nel Vangelo di
Giovanni, sono molto importanti tre passaggi in cui, con qualche diversità
terminologica, Gesù si identifica con la luce.
8,12: «Di nuovo Gesù parlò loro e
disse: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre,
ma avrà la luce della vita».
9,5: «Finché io sono nel mondo, sono
la luce del mondo».
12,46: «Io sono venuto nel mondo come
luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre».
§ 2. Regno e metánoia
Di fronte all’avvento del Regno, di
fronte luce che è il Regno, è necessaria la conversione come premessa e
specialmente come conseguenza (Mt 3,8.11; Mc 1,4; Lc 3,3.8; 5,32; 15,7; 24,47;
At 5,31; 11,18; 13,24; 19,4; 20,21; 26,20; Rm 2,4; 7,9.10; 2Cor 7,9.10; 2Tm
2,25; Eb 6,1.6; 12,17; 2Pt 3,9):
- come metánoia, come cambiamento di giudizio
- come conseguente metamórfosis, cambiamento di vita nella
sua forma sorgiva, rinunciando agli
“schemi” del mondo per accogliere la “forma” di Cristo.
cf. Rm 12,2: non con-schematizzatevi all’eone transitorio ma trasformatevi
(metamorfoûsthe) nel rinnovamento della mente (tê anakainósei toû noûs –
metánoia) per discernere la volontà
di Dio, ciò che è buono e bello e gradito e perfetto.
È il percorso degli Esercizi spirituali ignaziani: deformata
reformare, reformata conformare,
conformata confirmare e
confirmata transformare.
Mt 4,12-17:
«12Quando Gesù seppe che
Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, 13lasciò
Nàzaret e andò ad abitare a Cafàrnao, sulla riva del mare, nel territorio di
Zàbulon e di Nèftali, 14perché si compisse ciò che era stato detto
per mezzo del profeta Isaia: 15Terra di Zàbulon e terra di
Nèftali, sulla via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti! 16Il
popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che
abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta. 17Da
allora (apò tote) Gesù cominciò a
predicare e a dire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino».
L’espressione apò tòte con cui l’evangelista annunzia l’inizio del ministero
pubblico di Gesù, ossia l’inizio della sua rivelazione in parole ed in opere,
non scandisce semplicemente una successione cronologica ma indica di che natura
è tale rivelazione: si tratta della manifestazione della luce stessa di Dio,
che consiste nel Regno di Dio predicato ed attuato da Gesù.
L’identificazione dell’opera
salvifica di Gesù con la luce appare anche nei numerosi racconti di guarigione
o, per meglio dire, d’illuminazione
di ciechi (cf. Mt 9,27-31; 20,29-34; Mc 8,22-26; 10,46-52; Lc 18,35-43; Gv
9,1-41). In questi miracoli è l’intera opera salvifica di Dio che è evocata e,
ferma restando la storicità dei fatti miracolosi, simbolicamente descritta. In
questo senso, la luce va vista come simbolo della fede, così come le tenebre
sono simbolo dell’incredulità:
«Nei miracoli di guarigione dei
ciechi si adempie ciò che si attendeva per il tempo messianico: Dio (…) in Gesù
diventa la guida del suo popolo, come al tempo dell’esodo. (…) Come all’origine
delle tenebre, di cui la cecità è simbolo, c’è l’incredulità (Mc 4,11-12; Gv
9,1-42; Is 6,9-10), così alla base dell’illuminazione c’è la fede. In questi
miracoli di guarigione, i verbi “guarire”, “ricuperare la vista”, “vederci di
nuovo” non sono più limitati al solo corpo dell’uomo, ma diventano sinonimi di
“salvezza”. Essi non appartengono più al vocabolario della medicina e della
scienza, ma si trasformano nel vocabolario della luce / salvezza che solo Dio
può dare all’uomo (Mc 10,52; Gv 9,39)» (Cf. P. Gironi, “Luce / tenebre”, Nuovo
Dizionario di Teologia Biblica (Cinisello Balsamo 1988, 1994) 860.
La conversione, a livello noetico e a
livello etico consiste nel diventare luce da luce.
Mt 5,13-16:
«13Voi siete il sale della
terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A
null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente. 14Voi
siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un
monte, 15né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma
sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. 16Così
risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere
buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli».
In questo passo, Gesù delinea quella
che potremmo definire la carta d’identità dei suoi discepoli e lo fa con due
frasi assolutamente geniali: «Voi siete il sale della terra», «Voi siete la
luce del mondo». I due complementi di specificazione “della terra” e “del
mondo” ci fanno comprendere subito che è qui in gioco il volto dei cristiani
davanti agli altri e non davanti a qualche passante appena, ma al cospetto del
mondo intero, della storia umana nella sua totalità. In questo contesto,
l’aspetto più immediato espresso dal simbolo della luce è il fatto che esso
esalta la positività e l’efficacia della missione dei discepoli. Le tenebre
possono essere fitte e diffuse quanto vogliono ma una sola particella di luce
ha la meglio su di loro, le tenebre non possono impedire che essa rifulga e
risplenda. Nelle parole di Gesù c’è, dunque, un messaggio d’incoraggiamento e
di speranza per i suoi discepoli d’ogni tempo, che spesso possono essere presi
dal timore che il potere delle tenebre sia troppo forte per essere sconfitto
dalla luce. La buona notizia recata loro da Gesù è che non è così: la luce è
più forte delle tenebre. E questo perché Dio è luce, Gesù è luce.
Per avere la meglio sulle tenebre, i
discepoli sono chiamati semplicemente ad accogliere ogni giorno in sé stessi la
luce di Cristo. Così saranno essi stessi luce che risplende sul mondo. In
questo senso l’espressione la vostra luce
del v. 16 va parafrasata come la luce
che siete voi. Così la vita dei discepoli sarà non una lampada nascosta
sotto un vecchio secchio ma una città collocata sopra un monte, un faro che
aiuta i marinai a non perdere la rotta.
Un’analoga identificazione dei
discepoli con la luce o con i “figli della luce”(chiamati a maneggiare le “armi
della luce” ed a portare il «frutto della luce») è presente in vari passaggi
dell’epistolario paolino (cf. Rm 13,12-13; 1Ts 5,5; Ef 5,9-11.14). In questi
passi, l’Apostolo mette in evidenza la netta distinzione dei cristiani rispetto
all’ordinamento della tenebra e della morte e precisa i risvolti morali dell’illuminazione che essi hanno ricevuto in Cristo Gesù.
Consideriamo per tutti il testo di Ef
5,8-9:
«8Un tempo infatti eravate tenebra, ora siete luce nel
Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; 9ora il frutto
della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità».
Questo testo della lettera agli
Efesini, con l’evidente riferimento alla grazia del Battesimo, sacramento della
rinascita che consiste nell’illuminazione
del neofita, nel passaggio dalle tenebre alla luce, mette in evidenza il
principio fondamentale dell’etica cristiana e cioè il primato della grazia, il primato dell’agire di Dio sull’agire
dell’uomo. Di conseguenza, l’etica cristiana si configura come un’etica
responsoriale, come una “risposta” all’iniziativa del Padre che si è rivelato e
donato e si dona agli uomini attraverso la rivelazione / dono del Figlio e
dello Spirito Santo.
§ 3. Il Regno è mistero di
misericordia e di gloria paradossale (grandezza nell’umiltà, luce nel
nascondimento). Caratteristiche del Regno (Mt 13)
Il Regno è mystérion (sacramentum)
di misericordia e di riconciliazione.
Sacramentum – Mysterion indica un realtà totalmente di Dio che è anche totalmente per
l’uomo perché l’uomo sia tutto di Dio.
Il Regno è per la salvezza dei
peccatori.
È mistero, cioè rivelazione e
gratuita dispensazione dell’amore misericordioso di Dio, compendio di tutte le
divine perfezioni manifestate e donate da Gesù:
Messale Romano, Prefazione Cristo Re:
“Tu con olio di esultanza hai
consacrato Sacerdote eterno e Re dell’universo il tuo unico Figlio, Gesù Cristo
nostro Signore. Egli, sacrificando se stesso, immacolata vittima di pace
sull’altare della Croce, operò il mistero dell’umana redenzione; assoggettate
al suo potere tutte le creature, offrì alla tua maestà infinita il regno
eterno e universale: regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia,
regno di giustizia, di amore e di pace”.
Il Regno è il tema principale della
predicazione di Gesù così come è presentata dai Vangeli Sinottici. Un posto del
tutto speciale nel quadro della predicazione di Gesù è occupato dal c. 13 del
vangelo di Matteo, il discorso parabolico, nel quale Gesù presente il Regno in una serrata successione serie di
otto parabole.
La parabola (ebr. mashal)
consiste nel paragonare, accostare due realtà: una misteriosa (il Regno di Dio)
e una immediata, perché la seconda introduca a una comprensione più profonda
della prima. Il fondamento del metodo parabolico non è solo logico o razionale
ma teologico e metafisico. Poiché Dio è all’origine e al centro di ogni cosa,
la parabola fa affiorare in superficie ciò che è al cuore di tutto e di cui
tutte le cose parlano.
Unum loquuntur omnia recita un celebre passo dell’Imitazione
di Cristo (Ex uno Verbo omnia et unum loquuntur omnia, et hoc est
Principium quod et loquitur nobis).
Il significato si ricava dall’insieme
della narrazione e non tanto dai particolari (diversità dall’allegoria).
In
geometria i punti della parabola sono egualmente distanti da un punto fisso
detto FUOCO della parabola e da una retta fissa detta DIRETTRICE della
parabola.
Nelle parabole di Gesù anche i particolari hanno importanza (come si
vede del tutto chiaramente nelle spiegazioni che lui stesso offre della
parabola del seme e di quella della zizzania: 13,18-22; 13,36-43) ma purché
essi rimangano sempre ben ancorati al fuoco e alla direttrice della parabola.
Altrimenti, il rischio è di cadere in un’allegoresi che allontana dal senso
autentico della parabola.
Nelle parabole c’è una dose notevole
di ironia.
Boccaccio (che intitola il suo Decamerone: 100 novelle, o favole o
parabole) coglie bene quest’aspetto: “nella evangelica dottrina parlò molte cose
in parabole, le quali sono conformi in parte allo stile comico”.
Le parabole di Gesù si muovono sempre
lungo tre linee direttrici:
1) CRISTOLOGICA: la venuta del regno
di Dio nella sua persona
2) TRINITARIA: si delineano i tratti
del volto del Padre
3) ANTROPOLOGICA: la posizione che
l’uomo è chiamato ad assumere rispetto al Regno. Il CCC al n. 546 afferma: “le
parabole sono come specchi per l’uomo”.
Seguiamo
ora da vicino il capitolo 13 del vangelo di Matteo.
INTRODUZIONE NARRATIVA (13,1-3)
1Quel giorno Gesù uscì di casa e
sedette in riva al mare. 2Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì
su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia.
3Egli parlò loro di molte cose con
parabole. E disse:
Questi
primi vv. ci offrono uno spaccato pittoresco della predicazione di Gesù, una
predicazione di carattere popolare (nulla di accademico): la cattedra
(improvvisata) è una barca, la sinagoga è sostituita dalla spiaggia su cui
s’assiepano le folle, così numerose da costringere Gesù a parlare dalla
barca. Il metodo di predicazione è quelle delle parabole. La parabola (ebr. mashal)
consiste nel paragonare, accostare due realtà: una misteriosa (il Regno di
Dio) e una immediata, perché la seconda introduca a una comprensione più
profonda della prima. Il fondamento del metodo parabolico non è solo logico o
razionale ma teologico e metafisico. Poiché Dio è all’origine e al centro di
ogni cosa, la parabola fa venir fuori ciò che è al cuore di tutto e di cui
tutte le cose parlano.
“Unum loquuntur omnia” recita un
celebre passo dell’Imitazione di Cristo (Ex uno Verbo omnia et unum
loquuntur omnia, et hoc est Principium quod et loquitur nobis).

PRIMA PARABOLA: IL SEME (PARABOLA
SULLE PARABOLE) 13,3b-9
«Ecco, il seminatore uscì a
seminare. 4Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli
uccelli e la mangiarono. 5Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non
c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, 6ma
quando spuntò il sole, fu bruciata e, non avendo radici, seccò. 7Un’altra
parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. 8Un’altra parte cadde
sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno.
9Chi ha orecchi, ascolti».
Protagonista
della parabola è il seme. Matteo e Luca hanno ripreso la parabola da Marco. In
un suo studio sulla parabola in Marco (“Mark 4,1-20. Yet Once More”), Moule ha efficacemente
definito questa parabola come “la parabola delle parabole”, in cui si mette a
tema la questione dell’accoglienza del Vangelo del Regno proclamato da Gesù
Le due
linee classiche d’interpretazione:
1) la
prima pone l’accento sullo sviluppo della parabola considerandola dunque come
un compendio dell’esperienza di annuncio del Regno da parte di Gesù e della
Chiesa;
- «Come
ogni didaskalos anche il seminatore della parola del Regno deve mettere in
conto le sconfitte» (Jülicher, Gleichnisreden II, 536)
- «Molte
parole sono dette al vento» (Weiss) - «Il senso della missione di Gesù si
afferma solo nel pericolo» (Dietzfelbinger) - «Il regno di Dio è qui, ora che
dappertutto si manifesta l’ostilità verso di lui» (Schweizer).
2) la
seconda concentrandosi sulla conclusione considera la parabola come una
proclamazione dell’efficacia del seme del Regno.
- «nel
mezzo dei fallimenti presenti i lettori possono nutrire la fiducia che il regno
di Dio si affermerà» (Dodd)
- «Gesù,
il seminatore fiducioso, confida nel raccolto abbondante» (Jeremias)
- Al di
là dei loro fallimenti i discepoli devono vedere «la promessa incondizionata
di Dio» (Drewermann)
- Dove
vengono seminati semi c’è un parte in cui «produrranno frutto» (Weder)
- «Il
germe per il futuro straordinario successo è già stato messo a dimora»
(Klauck)
- «La
basileia viene già con la semina» (Lohfink)
Il senso
della parabola è evidente. Il seminatore è Dio stesso e/o è Gesù. San
Tommaso d’Aquino interpreta l’uscita del seminatore come la generazione del
Figlio all’interno del Mistero trinitario.
Il seme è
la Parola del Regno, presente nella persona di Gesù, nel suo predicare e
agire.
I diversi
terreni rappresentano i diversi destinatari umani del seme.
Alcuni (la
strada) lasciano che il seme rimanga in superficie e lo espongono agli uccelli.
Altri (il terreno sassoso) hanno uno strato troppo poco profondo, così il
germoglio spunta ma è debole e viene bruciato dal sole.
Altri
offrono al seme un terreno occupato da erbacce e spine le quali, crescendo
assieme al buon seme, lo soffocano.
Altri
accolgono il seme e portano frutto nella misura chi del cento, chi del
sessanta, chi del trenta per uno.
Il
messaggio della parabola è fondamentalmente positivo.
È
positivo nel fatto che dà inizio a tutto: il seminatore semina.
È
positivo nell’esito: il seme porta frutto (in misura diversa ma comunque
sovrabbondante). Tra questo fatto iniziale e fondamentale e l’esito vi sono
degli insuccessi ma essi non impediscono al seme caduto nella buona terra di
fruttificare ed al seminatore di continuare a seminare.
Dunque,
Gesù dà un messaggio d’incoraggiamento e di speranza. È come se ci dicesse:
guardate che io sto seminando, voi preoccupatevi di essere buon terreno e i
frutti, certamente, verranno.
Pur nel
mezzo dei fallimenti presenti, i lettori possono nutrire la ferma fiducia nel
fatto che il Regno si affermerà (cf. Dodd, Parables): si affermerà per
una forza insita nel seme e perché la terra buona c’è:
- BONTÀ
CREATURALE: Gn 1,26-27: l’uomo creato secondo lo tselem e il demut di Dio,
secondo l’immagine e la somiglianza del Creatore e dunque capace di portare un
frutto corrispondente a questa verità creaturale
-
INCARNAZIONE: umanità di Cristo: la terra bella è l’umanità del nuovo Adamo,
la cui efficacia è data agli uomini che aderiscono a lui nella fede.
Il senso
della parabola è evangelico sin dall’inizio e poi anche nel compimento.
Jeremias
sottolinea che Gesù agisce come un seminatore fiducioso in un raccolto
abbondante.
È molto
significativo il parallelismo con il racconto sacerdotale della Creazione
(terzo giorno).
Gen
1,9-13:
9Dio disse: «Le acque che sono sotto
il cielo si raccolgano in un unico luogo e appaia l’asciutto». E così avvenne.
10Dio chiamò l’asciutto terra, mentre chiamò la massa delle acque mare. Dio
vide che era cosa buona. 11Dio disse: «La terra produca germogli, erbe che
producono seme e alberi da frutto, che fanno sulla terra frutto con il seme,
ciascuno secondo la propria specie». E così avvenne. 12E la terra produsse
germogli, erbe che producono seme, ciascuna secondo la propria specie, e alberi
che fanno ciascuno frutto con il seme, secondo la propria specie. Dio vide che
era cosa buona. 13E fu sera e fu mattina: terzo giorno.
La
seminagione della Parola del Regno corrisponde e dà compimento all’opera della
Creazione.
PRIMO INTERVALLO ESPLICATIVO
(13,10-23)
10Gli si avvicinarono allora i
discepoli e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?». 11Egli rispose
loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro
non è dato. 12Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma
a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. 13Per questo a loro parlo
con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non
comprendono. 14Così si compie per loro la profezia di Isaia che dice:
Udrete, sì, ma non comprenderete,
guarderete, sì, ma non vedrete.
15Perché il cuore di questo popolo
è diventato insensibile,
sono diventati duri di orecchi
e hanno chiuso gli occhi,
perché non vedano con gli occhi,
non ascoltino con gli orecchi
e non comprendano con il cuore e non
si convertano e io li guarisca! (Isaia 6,9-10)
[La
traduzione di καὶ ἰάσομαι αὐτούς proposta dalla CEI 2008 lascia molto a
desiderare: il senso è quello di un forte stacco rispetto ai versi precedenti:
e io li guarirò. Il καὶ sembra avere un senso concessivo: ebbene, nonostante
il loro indurimento io li guarirò].
16Beati invece i vostri occhi perché
vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. 17In verità io vi dico: molti
profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo
videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono!
18Voi dunque ascoltate la parabola
del seminatore. 19Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la
comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore:
questo è il seme seminato lungo la strada. 20Quello che è stato seminato sul
terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia,
21ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una
tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno.
22Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la
preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed
essa non dà frutto. 23Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta
la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il
trenta per uno».
I
discepoli si avvicinano a Gesù e gli chiedono delle spiegazioni di carattere
“esoterico”: in realtà, si tratta di una riservatezza che si spiega con lo
sviluppo progressivo della rivelazione del Regno.
La
citazione del testo di Is 6,9-10 (LXX) fa emergere una secca contrapposizione
tra il noi dei discepoli e gli altri (sullo sfondo la dialettica noi/loro).
Non si
possono conoscere i misteri del Regno senza accogliere la persona di Gesù,
senza diventare suoi discepoli.
La
richiesta d’approfondimento riguarda prima di tutto la modalità stessa
dell’insegnamento di Gesù: “perché parli loro in parabole”? In un secondo
momento, la spiegazione della parabola del seminatore (13,18-23).
L’interpretazione
dei vv. 10-16 è da sempre molto controversa.
Forse che
Gesù teorizza un cristianesimo di tipo gnostico con i perfetti, gli illuminati
da una parte ed i “carnali” dall’altra?
Forse che
egli prospetta addirittura una doppia predestinazione alla salvezza per gli uni
ed alla condanna per gli altri?
Il punto
principale da considerare è il contesto costituito dall’esperienza della
comunità matteana e dalla teologia della storia da essa elaborata.
Osserva in
proposito U. Luz (II, 394):
«Il nostro
brano è un esempio classico di come talora il vangelo di Matteo non si schiuda
se ci si limita a leggerlo come “racconto”. Il suo macrotesto è certo
trasparente per l’esperienza storica della comunità. Esso le insegna a capire
come già a Gesù sia successo ciò che essa stessa ha sperimentato nella
propria storia [ecco lo scambio dei binari!]: il no della maggioranza d’Israele
e la separazione del popolo. Per Matteo l’incomprensione del popolo è, per
così dire, già prestabilita [non predestinata!] alla luce della fine della
storia – di quella di Gesù e di quella della comunità. Già Mc 4,10-12, la
fonte che sta alla base del nostro brano, era un tentativo di capire nel
presente questa mancanza di comprensione d’Israele. Matteo riprende questo
tentativo e lo porta avanti».
Alla luce
della rivelazione cristiana nel suo complesso, alla luce del contesto allargato
del Vangelo di Matteo e del contesto immediato costituito appunto dalla
parabola del seminatore, in cui c’è un seminatore che semina con larghezza per
tutti i terreni (= le tipologie di uomini), senza fare discriminazioni tra gli
uni e gli altri, il testo non afferma certo una rivelazione od una seminagione
per la condanna di qualcuno e per la salvezza di qualcun altro ma per la salvezza
di tutti.
Le
parabole fanno verità, gettano luce, fanno venire a galla la posizione
spirituale che ogni uomo assume rispetto al Regno.
Osserva
Luz (II,396s):
«Per
Matteo la cecità e la sordità di Israele sono un dato di fatto assodato. Esse
non sono provocate dalle parabole di Gesù, bensì, al contrario, il discorso
in parabole di Gesù è la “risposta” a tale incomprensione. Oppure si può
dire, ancora meglio, che nel parlare in parabole si condensa in forma narrativa
l’incomprensione del popolo».
Anzi, il
parlare in parabole rientra nella volontà universale di salvezza che Dio attua
nel Regno presente in Gesù: «Se Israele dovesse ravvedersi, Dio lo guarirebbe
davvero!» (Luz I, 397). Gesù sceglie di lasciare ancora nella penombra il suo
messaggio, di far ricorso alle parabole per non lasciar sprigionare la forza,
l’efficacia della sua Parola, della sua rivelazione nel suo potenziale di
condanna. In questo senso sono decisivi i versetti 12-13: Infatti a colui che
ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto
anche quello che ha. Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando
non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono.
Dunque, il
parlare in parabole rientra nella volontà universale di salvezza che Dio attua
nel Regno presente in Gesù.
Gesù
sceglie di lasciare ancora nella penombra il suo messaggio, di far ricorso alle
parabole per non lasciar sprigionare la forza, l’efficacia della sua Parola,
della sua rivelazione nel suo potenziale di condanna. In questo senso sono
decisivi i versetti 12-13: Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà
nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. Per
questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non
ascoltano e non comprendono.
In chi è
ancora chiuso all’annunzio del Regno, in chi ha rifiutato sinora di divenire
discepolo di Gesù, del Regno, la piena manifestazione del messianismo di Gesù
nel suo carattere di umiltà e di nascondimento sarebbe occasione di ulteriore
indurimento, di ulteriore accecamento. Ecco perché Gesù sceglie la penombra
delle parabole, per evitare un no categorico al Regno che coinciderebbe con
un’autocondanna e per porre le premesse di una progressiva apertura al Regno
stesso.
Nei vv.
16-17 (provenienti dalla fonte Q) alla situazione di sordità/cecità del
popolo si contrappone la beatitudine dei discepoli che consiste nel fatto di
udire (capire) e vedere. Ciò è dovuto alla loro adesione a Gesù, al fatto
d’aprirsi con fede all’insegnamento di Gesù: «I discepoli non sono coloro che
capiscono: essi lo diventano grazie all’insegnamento di Gesù» (Luz, II, 398).
A ciò che
tutti, più o meno direttamente, avrebbero potuto cogliere anche da soli, la
spiegazione dei vv. 18-23 aggiunge soprattutto lo svelamento degli avversari
del terreno, di coloro che impediscono al cuore dell’uomo di accogliere la
Parola del Regno e cioè: il Maligno (Satana), le tribolazioni e le
persecuzioni, la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza. A ben
vedere, però, queste realtà più che cause della non germinazione del seme
sono occasioni che rivelano un’inconsistenza del terreno. Dunque, la parabola
ci invita con forza a prendere coscienza della decisività del cuore dell’uomo
e della sua libertà, chiamata a volgersi a Dio e al suo Regno presente nella
persona di Gesù con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze (Dt
6,5) così da essere terreno, grembo accogliente e fecondo per il seme della
Parola.
SECONDA PARABOLA: IL BUON SEME E LA
ZIZZANIA (13,24-30)
24Espose loro un’altra parabola,
dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme
nel suo campo. 25Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della
zizzania in mezzo al grano e se ne andò. 26Quando poi lo stelo crebbe e fece
frutto, spuntò anche la zizzania. 27Allora i servi andarono dal padrone di
casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da
dove viene la zizzania?”. 28Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”.
E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. 29“No, rispose,
perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche
il grano. 30Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e
al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e
legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio”».
Punti salienti
-
drammatica del Regno (commixtio) – cf. la teologia della storia che
Agostino sviluppa nel De civitate Dei.
- la
realtà dell’ ἐχθρὸς ἄνθρωπος,
l’inimicus homo, dell’avversario del Regno: è l’anti-padre: settima
domanda del Pater
-
discernimento finale ad opera di Dio stesso
- pazienza
nel tempo che precede tale compimento
- i
discepoli non hanno il compito di creare una comunità rigorista di
integralisti, scrupolosamente attenti a rimanere “figli della luce” restando
separati dai “figli delle tenebre” (Esseni, Farisei, Donatisti, Montanisti) ma,
al contrario, di collaborare alla dilatazione del Regno fino agli estremi
confini della terra.
Gesù è
in cammino verso la Croce.
Lì si
rivelerà in pienezza la vera purezza, la purezza di Dio che non esclude ma
abbraccia e santifica:
«Nella
passione di Gesù, tutto lo sporco del mondo viene a contatto con
l’immensamente Puro, con l’anima di Gesù Cristo e così con lo stesso Figlio
di Dio. Se di solito la cosa impura mediante il contatto contagia ed inquina la
cosa pura, qui abbiamo il contrario: dove il mondo, con tutta la sua
ingiustizia e con le sue crudeltà che lo inquinano viene a contatto con
l’immensamente Puro – là, Egli, il Puro, si rivela al contempo il più forte.
In questo contatto, lo sporco del mondo viene realmente assorbito, annullato,
trasformato mediante il dolore dell’amore infinito» (Benedetto XVI, Gesù di
Nazaret II, c. 8).
TERZA PARABOLA: IL GRANELLO DI SENAPE
(13,31-32)
31Espose loro un’altra parabola,
dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo
prese e seminò nel suo campo. 32Esso è il più piccolo di tutti i semi ma,
una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un
albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi
rami».
Punti salienti
-
dialettica piccolo / grande: il granello di senape nera (brassica nigra) ha un
diametro che non supera di molto 1mm e la pianta può raggiungere fino a
quattro metri di altezza
-
dialettica realtà / apparenza
- acutezza
di sguardo per cogliere la crescita del Regno a vari livelli (storia
dell’interpretazione)
A) In noi
stessi (il Regno cresce in noi) – Ambrogio, Agostino
B) nella
Chiesa (Cristo fa crescere la Chiesa) – Origene,
C) nel
cosmo (la Chiesa fa crescere il mondo)
D) nel
futuro escatologico (il Regno sta crescendo nella storia) – cf. Schweitzer,
Weiss, Jeremias.
QUARTA PARABOLA: IL LIEVITO (13,33)
33Disse loro un’altra parabola: «Il
regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre
misure di farina, finché non fu tutta lievitata».
Punti salienti
-
dialettica invisibile / visibile, non piccolo / grande: tre staia corrispondono
più o meno a 40 litri, una quantità sufficiente per produrre 50 kg di pane,
per un pasto di circa 200 persone. Il lievito, inoltre, è escluso dai riti
pasquali
- processo
in fieri: l’accento è sulla forza dinamica del lievito che determina la
CRESCITA
- acutezza
di sguardo
ASSIEME
ALLA TERZA PARABOLA, LA QUARTA METTE IN LUCE LA CARATTERIZZAZIONE UMILE E
CRUCIFORME DEL REGNO: CRESCE NEL NASCONDIMENTO, NELL’UMILIAZIONE, NEL RIFIUTO.
MA È PROPRIO NELLA CROCE CHE MANIFESTA LA SUA FORZA.
Elogio
sepolcrale di S. Ignazio: “Non coerceri a maximo contineri tamen a minimo
divinum est”.
SECONDO INTERVALLO ESPLICATIVO
(13,34-43)
34Tutte queste cose Gesù disse alle
folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, 35perché si
compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta:
Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò
cose nascoste fin dalla fondazione del mondo (Salmo 78,2)
36Poi congedò la folla ed entrò in
casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola
della zizzania nel campo». 37Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è
il Figlio dell’uomo. 38Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del
Regno. La zizzania sono i figli del Maligno 39e il nemico che l’ha seminata è
il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli.
40Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà
alla fine del mondo. 41Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali
raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono
iniquità 42e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore
di denti. 43Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro.
Chi ha orecchi, ascolti!
QUINTA PARABOLA: IL TESORO NASCOSTO
NEL CAMPO (13,44)
44Il regno dei cieli è simile a un
tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di
gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo.
Punti salienti
-
dialettica invisibile / visibile
- ricerca,
ritrovamento, nascondimento
- gioia
- tutto
per il Regno
È questa
l’essenza del discepolato: Mc 8,34-38; Mt 16,24-28; Lc 9,23-27: chi vuole
salvare la propria vita la perderà, chi perderà la propria vita per causa mia
e del vangelo, la salverà.
- acquisto
del campo: il Regno è grazia ma esige anche magnanimità d’animo,
disponibilità a dare tutto per possedere il Regno (cf. Mc 10,21; Mt 6,19-34 al
centro del discorso della montagna; Mt 19,21 [il giovane ricco]).
SESTA PARABOLA: IL MERCANTE E LA
PERLA (13,45-46)
45Il regno dei cieli è simile anche
a un mercante che va in cerca di perle preziose; 46trovata una perla di grande
valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra.
Punti salienti
-
dialettica invisibile / visibile
- ricerca,
ritrovamento, nascondimento
La ricerca
è una condizione indispensabile perché uno possa trovare: “cercate e
troverete” (Mt 7,7)
- tutto
per il Regno
- acquisto
del campo: il Regno è grazia ma esige anche magnanimità d’animo,
disponibilità a sacrificare tutto per il Regno, perché il Regno è il vero
bene.
SETTIMA PARABOLA: LA RETE A STRASCICO
GETTATA IN MARE (13,47-50)
47Ancora, il regno dei cieli è
simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci.
48Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere,
raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. 49Così sarà
alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni 50e
li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti.
Punti salienti
- i pesci
cattivi sono saprà, non commestibili o legalmente impuri: cf. Lv 11,10-12; Dt
14,9ss.
-
drammatica del Regno (commixtio); cf. la seconda parabola: il buon seme e la
zizzania
-
discernimento finale: ESCHATON: οὕτως ἔσται ἐν τῇ
συντελείᾳ τοῦ αἰῶνος·
- certezza
sul compimento ultimo
- pazienza
nel tempo che precede tale compimento; VIGILANZA: poiché la Chiesa non è una
comunità di perfetti, l’appartenenza materiale può non essere sufficiente, è
necessaria un’appartenenza reale, è necessario essere giusti (καὶ ἀφοριοῦσιν
τοὺς πονηροὺς ἐκ μέσου τῶν δικαίων).
TERZO INTERVALLO: DOMANDA DI GESÙ
(13,51)
51Avete compreso tutte queste cose?».
Gli risposero: «Sì».
Nella
risposta affermativa dei discepoli risalta il “guadagno”, il frutto del
discepolato: un incremento di umanità, un di più a livello di intelligenza
del reale, di capacità di conoscere la verità delle cose.
Lumen fidei, n. 1: CHI CREDE VEDE,
cioè CHI SEGUE VEDE.
OTTAVA PARABOLA: LO SCRIBA DISCEPOLO
(PARABOLA SULLE PARABOLE) 13,52
52Ed egli disse loro: «Per questo
ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di
casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».
καινὰ
καὶ παλαιά - NOVA ET VETERA
-
COMPIMENTO: nesso tra Antico e Nuovo Testamento
DV 16:
Novum in Vetere latet et in Novo Vetus patet (Agostino)
-
RIVELAZIONE: nesso tra parole e azioni
Dei Verbum 2: “Haec
revelationis oeconomia fit gestis verbisque intrinsece inter se connexis”
-
INTELLIGENZA DEI SEGNI per sé e per tutti: questa è l’essenza della PROFEZIA
Gaudium et spes 4: “Per
svolgere questo compito, è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni
dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a
ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini
sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche.
Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese,
le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico”.
CONCLUSIONE NARRATIVA. 13,53
Terminate queste parabole, Gesù
partì di là.
A
proposito della conclusione di 13,53: LE PARABOLE NON SONO DELLE STORIE AVULSE
DALLA STORIA DI GESÙ: SONO PARTE INTEGRANTE DELL’AVVENIMENTO SALVIFICO CHE
CONSISTE NELLA PERSONA STESSA DI GESÙ: IN LUI IL REGNO DI DIO È PRESENTE.
EGLI È L’AUTOBASILEIA TOÛ THEOÛ, il Regno di Dio in persona: in ciò che
Gesù dice, in ciò che Gesù fa, nella sua stessa persona, Dio sta regnando,
sta cioè esercitando il suo potere, la sua onnipotenza per la salvezza dell’uomo.
Cf. Rm 14,17-18: «Il regno di Dio
infatti non è cibo o bevanda, ma giustizia,
pace e gioia nello Spirito Santo: chi si fa servitore di Cristo in queste
cose è bene accetto a Dio e stimato dagli uomini».
La domanda “venga il tuo Regno” è presente sia nella forma matteana che in
quella lucana della preghiera del Signore (cf. Mt 6,9-13; Lc 11,2-4).
La forma è identica in Mt 6,10a ed in
Lc 11,2c: «venga il tuo regno» (in greco: elthéto e basileía sou).
Quando il cristiano, figlio nel
Figlio chiede al Padre celeste “venga il tuo Regno”, si riferisce sia alla
venuta di Gesù nell’oggi della Chiesa (venuta che ha il suo vertice nella
celebrazione eucaristica) sia alla manifestazione finale della regalità di
Cristo nella Parusia, quando
egli verrà a giudicare i vivi ed i morti ed instaurerà il suo Regno eterno di
giustizia e di pace, dove Dio sarà tutto in tutti (cf. 1Cor 15,28), compiendo
perfettamente ogni nostro desiderio: «Anche se questa preghiera non ci avesse
imposto il dovere di chiedere l'avvento del Regno, noi avremmo, con
incontenibile spontaneità, lanciato questo grido, bruciati dalla fretta di
andare ad abbracciare ciò che forma l'oggetto delle nostre speranze»
(Tertulliano, De oratione, 5).
§ 4. Il Regno e la Chiesa
(prospettive spirituali e pastorali)
Fondamentale il numero 5 della Costituzione dogmatica sulla Chiesa del
Concilio Vaticano II Lumen gentium:
“Il mistero della santa Chiesa si
manifesta nella sua stessa fondazione. Il Signore Gesù, infatti, diede inizio
ad essa predicando la buona novella, cioè l'avvento del regno di Dio da secoli
promesso nella Scrittura: « Poiché il tempo è compiuto, e vicino è il regno
di Dio » (Mc 1,15; cfr. Mt 4,17). Questo regno si manifesta chiaramente agli
uomini nelle parole, nelle opere e nella presenza di Cristo. La parola del
Signore è paragonata appunto al seme che viene seminato nel campo (cfr. Mc
4,14): quelli che lo ascoltano con fede e appartengono al piccolo gregge di
Cristo (cfr. Lc 12,32), hanno accolto il regno stesso di Dio; poi il seme per
virtù propria germoglia e cresce fino al tempo del raccolto (cfr. Mc 4,26-29).
Anche i miracoli di Gesù provano che il regno è arrivato sulla terra: « Se
con il dito di Dio io scaccio i demoni, allora è già pervenuto tra voi il
regno di Dio » (Lc 11,20; cfr. Mt 12,28). Ma innanzi tutto il regno si
manifesta nella stessa persona di Cristo, figlio di Dio e figlio dell'uomo, il
quale è venuto « a servire, e a dare la sua vita in riscatto per i molti » (Mc
10,45). Quando poi Gesù, dopo aver sofferto la morte in croce per gli uomini,
risorse, apparve quale Signore e messia e sacerdote in eterno (cfr. At 2,36; Eb
5,6; 7,17-21), ed effuse sui suoi discepoli lo Spirito promesso dal Padre (cfr.
At 2,33). La Chiesa perciò, fornita dei doni del suo fondatore e osservando
fedelmente i suoi precetti di carità, umiltà e abnegazione, riceve la
missione di annunziare e instaurare in tutte le genti il regno di Cristo e di
Dio, e di questo regno costituisce in
terra il germe e l'inizio. Intanto, mentre va lentamente crescendo,
anela al regno perfetto e con tutte le sue forze spera e brama di unirsi col
suo re nella gloria”.
La Chiesa germe e inizio del Regno.
vs. Loisy e teologia liberale: A. Loisy: «Gesù annunciò il regno di Dio ed è venuta la Chiesa»
La Pasqua, l’Ascensione e la
Pentecoste con la nascita della Chiesa sono tre momenti dell’unico e medesimo
Mistero: l’instaurazione del Regno di Cristo.
Cristo Risorto, asceso alla gloria
del Padre come Signore dell’Universo, effonde in comunione con il Padre lo Spirito
Santo, l’artefice d’ogni santificazione, colui che viene a rinnovare la terra
attraverso la Chiesa, la comunione di persone in mezzo alla quale Gesù sta ed
opera:
«La sera di quel giorno, il primo
della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i
discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro:
“Pace a voi”. Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli
gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre
ha mandato me, anche io mando voi”. Detto questo, soffiò e disse loro:
“Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno
perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”» (cf. Gv
20,19-23).
Nel mondo devastato dal disordine e
dalla forza disgregatrice del peccato, lo Spirito Santo fa riaccadere il
miracolo dell’unità e della concordia. Il peccato, la menzogna, la folle
pretesa di costruire la città dell’uomo senza Dio producono Babele, producono
la città della divisione, dell’incomunicabilità e della discordia. Lo Spirito,
invece, costruisce una nuova città per l’uomo, la città di Dio, in cui gli
uomini possono incontrarsi nella concordia e nella pace:
«Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti
insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un
vento che si abbatte impetuoso e riempì tutta la casa dove stavano. (…) Tutti
furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel
modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Abitavano allora a
Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel
rumore la folla si radunò e rimase turbata perché ciascuno li udiva
parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia,
dicevano: “Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? Come mai ciascuno
di noi sente parlare nella propria lingua nativa?» (cf. At 2,1-8).
Nella Chiesa, germe e inizio del Regno escatologico, nella Parola di Dio che essa
annuncia e da cui è sempre generata, nei Sacramenti che essa celebra e da cui
essa è vivificata (la Chiesa fa
l’Eucarestia – l’Eucarestia fa la Chiesa), nella sua vita teologale di
fede, speranza e carità – nella Chiesa è possibile a ogni uomo di incontrare
Cristo.
«All’inizio dell’essere cristiano non
c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un Avvenimento,
con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione
decisiva» (DCE 1).
Oltre alla critica di Loisy e degli
altri esponenti della teologia liberale, il Regno nelle sue caratteristiche
cristologica ed ecclesiologica subirono due forti contestazioni o, per meglio
dire, due forme di secolarizzazione, ancora presenti ai nostri giorni:
- la secolarizzazione
politico-storicista
- la secolarizzazione scientista e
tecnicista
Queste vaste tematiche furono al
centro dell’avvincente sviluppo concettuale proposto da Benedetto XVI
nell’enciclica Spe salvi del 30 nov. 2007.
In particolare, in Spe salvi Benedetto XVI affronta a viso
aperto la critica blochiana alla speranza ebraico-cristiana e la conseguenze
proposta di sostituire al Regno di Dio un regno umano di giustizia. Nel Das Prinzip Offnung, Bloch riconosce
alla Bibbia di aver portato al mondo la nozione, il concetto stesso di
speranza, ma di averlo fatto in maniera sterile, risultando nei fatti incapace
di liberare davvero l’uomo e la società. Per questo, secondo il filosofo
tedesco, la liberazione sarebbe venuta dall’ideologia marxista, che avrebbe
dato contenuto reale alla speranza ebraico-cristiana, trasformando questa
speranza illusoria in una speranza reale: “è in vista una fine del tunnel
che non proviene dalla Palestina ma da Mosca: ubi Lenin, ibi Jerusalem”,
“dove è Lenin, lì è la Gerusalemme Celeste”.
Questo è la secolarizzazione
storicista del Regno.
Passiamo ora a quella scientista.
In Spe salvi, Benedetto XVI la fa risalire a Francesco Bacone (Spe salvi, 17). La «redenzione», la
restaurazione del «paradiso» perduto, non si attende più dalla fede, ma dal
collegamento appena scoperto tra scienza e prassi. Non è che la fede, con ciò,
venga semplicemente negata; essa viene piuttosto spostata su un altro livello –
quello delle cose solamente private ed ultraterrene – e allo stesso tempo
diventa in qualche modo irrilevante per il mondo. Questa visione programmatica
ha determinato il cammino dei tempi moderni e influenza pure l'attuale crisi
della fede che, nel concreto, è soprattutto una crisi della speranza cristiana.
Così anche la speranza, in Bacone, riceve una nuova forma. Ora si chiama: fede
nel progresso. Per Bacone, infatti, è chiaro che le scoperte e le invenzioni
appena avviate sono solo un inizio; che grazie alla sinergia di scienza e
prassi seguiranno scoperte totalmente nuove, emergerà un mondo totalmente
nuovo, il regno dell'uomo»
Le due tappe essenziali della
concretizzazione politica della fede-speranza nel progresso sono la Rivoluzione
francese e la Rivoluzione bolscevica, ossia la rivoluzione della borghesia e
quella del proletariato. In entrambe è presente il grande sogno, la grande
utopia di edificare il regno di Dio sulla terra e di edificarlo naturalmente
senza Dio, come regno dell’uomo e solo dell’uomo.
A questo punto, Benedetto XVI osserva
che proprio al momento della sua affermazione (in Russia e non solo), il
marxismo ha rivelato i suoi limiti, soprattutto l’errore fondamentale di Marx,
quello di aver perso di vista l’uomo. In nome di idee, peraltro in parte
condivisibili, egli ha dimenticato l’uomo.
La vera liberazione non può venire con il cambiamento di strutture
esterne, con l’introduzione di idee giuste (ma che, al di fuori, di un tessuto
organico di verità) ma attraverso un cambiamento dell’uomo dall’interno,
cambiamento che non può avvenire grazie alle sole forze dell’uomo ma che deve
essere accolto da Dio come grazia, come dono. «L'uomo ha bisogno di Dio,
altrimenti resta privo di speranza. [...] Un « regno di Dio » realizzato senza
Dio – un regno quindi dell'uomo solo – si risolve inevitabilmente nella «fine
perversa» di tutte le cose descritta da Kant (nel Das Ende aller Dinge del
1795): l'abbiamo visto e lo vediamo sempre di nuovo. Ma non vi è neppure dubbio
che Dio entra veramente nelle cose umane solo se non è soltanto da noi pensato,
ma se Egli stesso ci viene incontro e ci parla» (Spe salvi, 23).
Dunque, è il farsi avvenimento di Dio
nella storia umana, la sua rivelazione a noi in parole ed in opere e poi, nella
pienezza dei tempi, personalmente in Gesù Cristo, che introduce nel
mondo la grande speranza. L’uomo, infatti, non può essere redento attraverso
idee, concetti, strutture, ma solo per mezzo dell’amore.
D’altra parte, è vero che si tratta
di un Regno e non di piccoli principi
su piccoli principati disseminati in remote asteroidi. Non potremo salvarci da
soli, dovremo rendere conto degli altri, di ciò che abbiamo fatto del nostro
mondo, del giardino che Dio ci aveva affidato. L’assioma patristico “Extra
Ecclesiam nulla salus”, significa appunto che non c’è salvezza che
non abbia una dimensione sociale, comunitaria, storica.
La fede cristiana
c’impedisce di ritenere che conta solo salvarsi l’anima nel giudizio
particolare, attraversare questo mondo infetto e le sue battaglie “con una
rosa in mano” (secondo l’espressione del romanziere francese Jean Giono).
Al contrario, inserendoci in un’intima comunione con Cristo, la fede ci apre
agli altri. Dice Benedetto XVI al n. 28 della Spe salvi: «vivere per Lui significa lasciarsi coinvolgere nel suo
“essere per”».
Lasciarsi coinvolgere ora. Essere
partecipi ora in pienezza della comunione ecclesiale. È questa la condizione
per partecipare un giorno alla comunione dei santi in Paradiso. Ciò significa
che la visione della vita beata a cui è orientata tutta la comunità cristiana,
ha una reale capacità d’incidere sulla storia umana, non con la pretesa di
portare il Paradiso in terra, ma di rendere visibile già ora quel Regno di
luce e di pace verso cui è in cammino tutta la storia umana.
Per questa ragione, l’apologia di
Benedetto XVI presenta anche dei riferimenti ad avvenimenti, fatti, persone in
cui la speranza cristiana ha mostrato, dimostrato la sua consistenza, la sua
credibilità, o meglio quella che potremmo definire come la sua sperabilità. Mi
limito ora semplicemente a richiamarli con un breve commento:
a) la fine della schiavitù.
Il cristianesimo non aveva portato un
messaggio sociale-rivoluzionario come quello di Spartaco, Barabba o Bar-Kochba.
Tuttavia, il Cristianesimo annunciava il Vangelo che dall’interno avrebbe eroso
qualsiasi ordinamento basato sulla discriminazione e sulla diseguaglianza tra
gli uomini. Afferma il Papa al n. 4: «Anche se le strutture esterne rimanevano
le stesse, questo cambiava la società dal di dentro. Se la Lettera agli
Ebrei dice che i cristiani quaggiù non hanno una dimora stabile, ma cercano
quella futura (cfr Eb 11,13-16; Fil 3,20), ciò è tutt'altro che
un semplice rimandare ad una prospettiva futura: la società presente viene
riconosciuta dai cristiani come una società impropria; essi appartengono a una
società nuova, verso la quale si trovano in cammino e che, nel loro
pellegrinaggio, viene anticipata» (Spe salvi, 4).
Ecco perché San Paolo,
nella lettera a Filemone, rimandando allo stesso Filemone, lo schiavo Onesimo
che era fuggito da lui “non più come schiavo, ma molto più che schiavo come
fratello carissimo” (Fm 16). Alla luce della lettera a Filemone si vede che gli
uomini che, secondo l’ordinamento dello stato, si rapportano tra loro come
padroni e schiavi, secondo il nuovo ordinamento determinato dall’incorporazione
a Cristo, in quanto membri dell'unica Chiesa sono diventati tra loro fratelli e
sorelle.
b) la fine del dominio della
materia, della soggezione agli elementi del mondo.
Al tempo in cui il Cristianesimo
irruppe nella storia il mondo veniva concepito come soggetto alla signoria
degli «elementi del cosmo» (Col 2,8), in cui lo spazio per l’uomo, lo
spazio per la ragione e la libertà era fortemente limitato. In questo contesto
il Cristianesimo apportò un’autentica rivoluzione. Cito da Spe salvi 5:
«In questa prospettiva un testo di san Gregorio Nazianzeno può essere
illuminante. Egli dice che nel momento in cui i magi guidati dalla stella
adorarono il nuovo re Cristo, giunse la fine dell'astrologia, perché ormai le
stelle girano secondo l'orbita determinata da Cristo. Di fatto, in questa scena
è capovolta la concezione del mondo di allora che, in modo diverso, è
nuovamente in auge anche oggi. Non sono gli elementi del cosmo, le leggi della
materia che in definitiva governano il mondo e l'uomo, ma un Dio personale
governa le stelle, cioè l'universo; non le leggi della materia e
dell'evoluzione sono l'ultima istanza, ma ragione, volontà, amore – una
Persona. E se conosciamo questa Persona e Lei conosce noi, allora veramente
l'inesorabile potere degli elementi materiali non è più l'ultima istanza;
allora non siamo schiavi dell'universo e delle sue leggi, allora siamo liberi.
Una tale consapevolezza ha determinato nell'antichità gli spiriti schietti in
ricerca. Il cielo non è vuoto. La vita non è un semplice prodotto delle leggi e
della casualità della materia, ma in tutto e contemporaneamente al di sopra di
tutto c'è una volontà personale, c'è uno Spirito che in Gesù si è rivelato come
Amore (CCC 1817-1821)».
c) Il ruolo svolto dal
Cristianesimo al tempo delle invasioni barbariche.
Quando l'irruzione di questi nuovi
popoli minacciò la coesione del mondo determinata dall’Impero e dalla civiltà
romana, nella quale era data una certa garanzia di diritto e di vita in una
comunità giuridica, il Cristianesimo s’incaricò di garantire i fondamenti
veramente portanti di questa comunità di vita e di pace, fondamenti che
permisero di poter sopravvivere nel mutamento del mondo determinato dalle
invasioni barbariche e posero le premesse per la costruzione di una nuova
civiltà (Spe salvi, 15).
d) Il compito semplicemente
decisivo del monachesimo nella
nascita e nello sviluppo dell’Europa, attraverso l’unificazione della
preghiera e del lavoro, l’ora et labora, l’unificazione della ricerca di
Dio attraverso la preghiera e l’impegno per la crescita della città dell’uomo
attraverso il lavoro. Il Papa osserva che nel Medioevo, i monaci si riconobbero
responsabili per l'intero organismo della Chiesa, anzi, per l'umanità intera. I
contemplativi – contemplantes – divennero così anche lavoratori laborantes.
I giovani nobili che affluivano nei monasteri cistercensi si piegarono al
lavoro manuale. Certo, San Bernardo era consapevole che neanche il monastero
può ripristinare il Paradiso; sostiene però che esso deve, quasi luogo di
dissodamento pratico e spirituale, utile a preparare il nuovo Paradiso (Spe
salvi, 15), che discende dall’alto come dono assolutamente gratuito di Dio.
e) la testimonianza dei santi:
«Questa nuova libertà, la consapevolezza della nuova “sostanza” che ci è stata
donata, si è rivelata non solo nel martirio, in cui le persone si sono opposte
allo strapotere dell'ideologia e dei suoi organi politici, e, mediante la loro
morte, hanno rinnovato il mondo. Essa si è mostrata soprattutto nelle grandi
rinunce a partire dai monaci dell'antichità fino a Francesco d'Assisi e alle
persone del nostro tempo che, nei moderni Istituti e Movimenti religiosi, per
amore di Cristo hanno lasciato tutto per portare agli uomini la fede e l'amore
di Cristo, per aiutare le persone sofferenti nel corpo e nell'anima. [...] Per
noi che guardiamo queste figure, questo loro agire e vivere è di fatto una
“prova” che le cose future, la promessa di Cristo non è soltanto una realtà
attesa, ma una vera presenza (Spe salvi, 8)
Dunque, nonostante i limiti ed i
peccati degli uomini, la speranza cristiana non s’è dimostrata, alla prova dei
fatti, al vaglio della verifica della storia, sterile ed inoperosa, al
contrario si è dimostrata capace di cambiare realmente e in bene le strutture e
le vicende degli uomini. Questo perché chi è certo del futuro, è capace di uno
sguardo nuovo e di una forza nuova rispetto al presente. Questa consapevolezza
è all’origine di alcune rappresentazioni dell’inizio del Cristianesimo di Gesù
come il filosofo ed il pastore, come colui che è capace d’indicare la direzione
della vera vita (il filosofo) e di precederci verso il compimento della stessa
(il pastore): «Il vero pastore è Colui che conosce anche la via che passa per
la valle della morte; Colui che anche sulla strada dell'ultima solitudine,
nella quale nessuno può accompagnarmi, cammina con me guidandomi per
attraversarla: Egli stesso ha percorso questa strada, è disceso nel regno della
morte, l'ha vinta ed è tornato per accompagnare noi ora e darci la certezza
che, insieme con Lui, un passaggio lo si trova. La consapevolezza che esiste
Colui che anche nella morte mi accompagna e con il suo «bastone e il suo
vincastro mi dà sicurezza», cosicché «non devo temere alcun male» (cfr Sal 23
[22],4) – era questa la nuova « speranza » che sorgeva sopra la vita dei
credenti» (Spe salvi, 7).
Interessanti
prospettive di approfondimento e di attualizzazione spirituale e missionaria vi
sono anche nell’Esortazione Apostolica
Evangelii gaudium (24 nov. 2013), considerata il documento programmatico
del magistero di Papa Francesco.
Evangelii gaudium, 278s:
«278
Crediamo al Vangelo che dice che il Regno di Dio è già presente nel mondo, e si
sta sviluppando qui e là, in diversi modi: come il piccolo seme che può
arrivare a trasformarsi in una grande pianta (cfr Mt 13,31-32), come una
manciata di lievito, che fermenta una grande massa (cfr Mt 13,33) e come il
buon seme che cresce in mezzo alla zizzania (cfr Mt 13,24-30), e ci può sempre
sorprendere in modo gradito. È presente, viene di nuovo, combatte per fiorire
nuovamente. La risurrezione di Cristo produce in ogni luogo germi di questo
mondo nuovo; e anche se vengono tagliati, ritornano a spuntare, perché la
risurrezione del Signore ha già penetrato la trama nascosta di questa storia,
perché Gesù non è risuscitato invano. Non rimaniamo al margine di questo
cammino della speranza viva!
279.
Poiché non sempre vediamo questi germogli, abbiamo bisogno di una certezza
interiore, cioè della convinzione che Dio può agire in qualsiasi circostanza,
anche in mezzo ad apparenti fallimenti, perché «abbiamo questo tesoro in vasi
di creta» (2 Cor 4,7). Questa certezza è quello che si chiama “senso del
mistero”. È sapere con certezza che chi si offre e si dona a Dio per amore,
sicuramente sarà fecondo (cfr Gv 15,5). Tale fecondità molte volte è
invisibile, inafferrabile, non può essere contabilizzata. Uno è ben consapevole
che la sua vita darà frutto, ma senza pretendere di sapere come, né dove, né
quando. Ha la sicurezza che non va perduta nessuna delle sue opere svolte con
amore, non va perduta nessuna delle sue sincere preoccupazioni per gli altri,
non va perduto nessun atto d’amore per Dio, non va perduta nessuna generosa
fatica, non va perduta nessuna dolorosa pazienza. Tutto ciò circola attraverso
il mondo come una forza di vita. A volte ci sembra di non aver ottenuto con i
nostri sforzi alcun risultato, ma la missione non è un affare o un progetto
aziendale, non è neppure un’organizzazione umanitaria, non è uno spettacolo per
contare quanta gente vi ha partecipato grazie alla nostra propaganda; è
qualcosa di molto più profondo, che sfugge ad ogni misura. Forse il Signore si
avvale del nostro impegno per riversare benedizioni in un altro luogo del mondo
dove non andremo mai. Lo Spirito Santo opera come vuole, quando vuole e dove
vuole; noi ci spendiamo con dedizione ma senza pretendere di vedere risultati
appariscenti. Sappiamo soltanto che il dono di noi stessi è necessario.
Impariamo a riposare nella tenerezza delle braccia del Padre in mezzo alla
nostra dedizione creativa e generosa. Andiamo avanti, mettiamocela tutta, ma
lasciamo che sia Lui a rendere fecondi i nostri sforzi come pare a Lui».
§ 5. Maria e il Regno
Siamo nella chiesa di Santa Maria del Sepolcro, dove è custodita la più
importante reliquia della città di Potenza e, penso, della nostra Regione: la reliquia del sangue di
Cristo qui solennemente riposta dal vescovo Bonaventura Claverio nel 1656.
Stabat Mater dolorosa
iuxta crucem lacrimosa dum pendebat Filius (Jacopone
da Todi).
Rimase ferma ai piedi della Croce Maria, unita all’oblazione del Figlio
come Corredentrice, come principale collaboratrice nell’opera del Figlio,
nell’instaurazione del Regno di giustizia, di amore, di pace che consiste nella
persona stessa del Figlio e che rimane presente nel Mistero della Chiesa, della
quale Maria è Madre in virtù del supremo testamento d’amore del Figlio.
Gv 19,25-27: “dice alla madre: “Donna, ecco il tuo figlio”. Ecco
la tua madre”. E da quell’ora il discepolo la prese nella sua famiglia
Croce
e Risurrezione sono i due eventi cruciali che compongono il Mistero pasquale di
Gesù. Anche per Maria è così.
C’è la Croce del Figlio accolta come
propria, in un modo così pieno da meritarle il titolo di Regina dei Martiri.
C’è la gloria della Risurrezione:
quella del Figlio, quella di Maria, nella sua assunzione al cielo in anima e
corpo e nella sua regalità celeste.
«A questa gloria che, con
l'Ascensione, pone il Cristo alla destra del Padre, Ella stessa sarà sollevata
con l'Assunzione, giungendo, per specialissimo privilegio, ad anticipare il
destino riservato a tutti i giusti con la risurrezione della carne. Coronata
infine di gloria – come appare nell'ultimo mistero glorioso – Ella rifulge
quale Regina degli Angeli e dei Santi, anticipazione e vertice della condizione
escatologica della Chiesa» (JP II, RVM, 23)
Questa condizione escatologica è il Regno non più solo
come “germe” e “inizio” ma come realizzazione compiuta e definitiva. È verso il
Regno che la Chiesa e ogni singolo credente è in cammino, in pellegrinaggio:
«Ogni giorno del nostro pellegrinaggio sulla terra è un
dono sempre nuovo del tuo amore per noi, e un pegno della vita immortale,
perché possediamo fin da ora le primizie del tuo Spirito, nel quale hai
risuscitato Gesù Cristo dai morti, e viviamo nell’attesa che si compia la beata
speranza nella Pasqua eterna del tuo Regno» (Pref. Dom. T.O. VI).
Fonte :
Segreteria della Luogotenenza per l'Italia Meridionale Tirrenica :
Delegazione di Potenza, relazione di don Cesare Mariano al terzo
incontro formativo sui Misteri della Luce del 30 giugno 2020 , inviato
da Francesco Cafarelli.
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OESSG
Luogotenenza per Italia Meridionale Tirrenica
E-mail: info@oessg-lgimt.it
Web: www.oessg-lgimt.it